Trapani e la sua provincia si portano addosso un antico stigma. Fin da quando s’è cominciato a parlare di Italia, l’estrema provincia occidentale della Sicilia è stata definita “incapace di dare gioia”. Il primo a dirlo fu il leggendario eroe Enea, in una terribile maledizione rivolta alla terra in cui era morto suo padre Anchise. Una maledizione che, di secolo in secolo, s’è confermata essere una vera e propria profezia.
Nonostante la travolgente bellezza del suo paesaggio, dei suoi tramonti, il clima mite e la straordinaria tradizione culturale, c’è sempre stato un fermo ostacolo alla crescita e allo sviluppo. Forse perché per secoli le sue innegabili qualità, la sua ineffabile bellezza, non sono mai riuscite a contrastare un caparbio e ostinato gattopardismo.
È bene precisare: per gattopardismo non si intende solo il sentimento di immutabilità, di conservatorismo; in realtà, è un atteggiamento molto più grave. Per gattopardismo si intende soprattutto il continuare a credersi «il sale della terra», i figli del dio Sole. Già sufficientemente fortunati per la Natura loro concessa.
E invece, come ci mostrano ogni anno le indagini sulla qualità della vita, sui servizi scolastici e culturali, Trapani e la provincia di Trapani fanno fatica a risalire la china. Non per difetto degli attuali amministratori, ma per una sorta di “danno strutturale”, di deleterio retaggio. O se volete, per colpa di quella prima maledizione di Enea.
Adesso, però, Trapani e la sua provincia hanno una grande occasione per dimostrare di potere risolvere quel danno strutturale, per potere finalmente scongiurare la maledizione di Enea. E questa occasione è la candidatura a Capitale Italiana della Cultura del 2022.
Facciamo un passo indietro, cosa significa essere Capitale Italiana della Cultura?
Se dovessimo tradurre il titolo in termini pratici si tratterebbe di un premio di un 1 milione di euro e dell’esclusione delle risorse investite nella realizzazione del progetto dal vincolo del patto di stabilità. Né poco né molto per un territorio come quello trapanese. Di certo, però, niente che possa segnare una svolta.
La svolta, infatti, non riguarda il titolo in termini pratici, ma simbolici. Essere Capitale Italiana della Cultura per Trapani significherebbe porsi come centro di una estesa città metropolitana, che attraverso il suo “Patto per la Cultura” sia in grado di riunire a sé oltre venti differenti realtà comunali. Una città metropolitana che nella sua molteplicità condivida i bisogni e le speranze di riscatto e quindi progetti un comune disegno per il futuro. Che si apra al turismo, alle indagini sulla qualità della vita e dei servizi culturali, nell’unione e nell’unicità delle sue risorse. E che lavori, perciò, per migliorarle congiuntamente, quelle risorse.
Sarebbe un primo passo, quindi. Un solido basamento che già in questi mesi di candidatura ha visto i primi risultati. Tutti i sindaci della provincia, infatti, legati da questa idea, hanno già firmato un piano secondo il quale il ricco programma di iniziative, che Trapani vinca o no il ruolo, sarà lo stesso attuato. In effetti, la rete dei sindaci che firma questo piano ha già dato il via alla città metropolitana che stiamo immaginando.
Allora, ci si potrebbe chiedere, perché vincere? Se le iniziative verranno comunque realizzate, perché è importante vincere?
Forse, l’unica risposta possibile è che i simboli, che ci piaccia o no, sono importanti. Un simbolo è qualcosa che ci tiene assieme. E di simboli, di simboli alternativi, la provincia di Trapani ha bisogno per rispondere al gattopardismo che fino a ieri ci ha distinti. All’immobilismo che fino a ieri ci ha trattenuti.
Il 14 e il 15, con le altre nove città candidate al titolo, Trapani presenterà il suo dossier alla commissione del Mibact. Il 18 si avrà notizia della designazione.
Che sia tempo, allora, di cambiare simboli?
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